giovedì 2 giugno 2016

Una questione privata, Beppe Fenoglio


Nella parte conclusiva del romanzo di Beppe Fenoglio, Una questione privata, l’autore ritrae il giovane partigiano Milton in una disperata fuga. La continua ripetizione del verbo “correva” conferisce ritmo e drammaticità all’azione, trasmettendo anche al lettore il senso di angoscia del protagonista. Milton pare combattuto tra la volontà di morire, quando desidera che una pallottola lo colpisca in fronte e quando cerca un modo per uccidersi, e l’istinto di sopravvivenza, che lo spinge a correre quasi per inerzia. La sua vista è offuscata, la sua mente non più lucida lo priva del senso della realtà, impedendogli di percepire se egli sia ancora vivo o già morto. La sensazione di straniamento lo spinge a cercare il contatto con altri uomini. Vivo o morto che egli sia, permane nel protagonista la consapevolezza di essere in trappola. L’opera, pubblicata postuma nel 1963, si conclude con un finale aperto: ognuno può fornire la propria interpretazione riguardo alla fine di Milton. Fenoglio non dice che Milton muore, ma solo che “crolla”: il lettore non sa se egli muoia per le ferite o se cada per lo sfinimento della fuga, accentuato dalla delusione d’amore.


“Arrenditi!”                                                                                                                                            
Sparavano da due lati, dal ciglione e dall’arginello, urlando a lui e a se stessi, eccitandosi, indirizzandosi, rimproverandosi, incoraggiandosi. [...] Due pallottole si conficcarono in terra vicino a lui, morbide, amichevoli. Si rialzò e corse, senza forzare, rassegnatamente, senza nemmeno zigzagare. Le pallottole arrivavano innumerevoli, a branchi, a sfilze. Arrivavano anche diagonali e gli sparavano come d’anticipo, come a un uccello. Queste diagonali lo atterrivano infinitamente di più, le dirette avevano tutte le probabilità di farlo secco. “Nella testa, nella testaaaa!” Non aveva più la pistola per spararsi, non vedeva un tronco contro cui fracassarsi la testa, correndo alla cieca si alzò le due mani al collo per strozzarsi.                                                                            
Correva, sempre più veloce, più sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi. Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici.                                                                                   Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. [...] Aveva bisogno di vedere gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. [...]                                     Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò diritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò. 

 
Lavinia Frediani 



Nessun commento:

Posta un commento