domenica 29 maggio 2016

Considerazioni attuali sulla guerra e la morte-Sigmund Freud

Sigmund Freud,considerazioni attuali sulla guerra e la morte

Lo psicanalista  Sigmund Freud  presenta il primo conflitto mondiale come un evento rivoluzionario per l'umanità :esso ha trascinato gli uomini in una spirale negativa perversa senza fine in cui non si riescono più a riconoscere i diritti fondamentali dell'altro e dove nessuno sfugge al contagio dilagante dell'orrore della guerra:tutti,dagli scienziati agli psicologi ne sono influenzati.Il conflitto ha cambiato non solo i valori civili e morali delle nazioni,ma è penetrato nel profondo dell'animo degli individui. la tesi di Freud è evidente in questo senso:guerra non è sola la bomba,la trincea,gli uomini caduti sul campo,essa è  perdita di razionalità da parte di un uomo che regredisce ad  una condizione di bestialità e brutalità.Come Eliot,poeta inglese suo contemporaneo o la Arendt, pensatrice a lui successiva,considera il conflitto come la sostanziale fine di un mondo di valori etici e civili,con il conseguente scadimento in forme di brutalità efferate e senza paragoni nella storia dell'umanità.Di fronte a questa regressione al mondo delle pulsioni primitive,risvegliate dal conflitto,la civiltà umana appare,per lo psicanalista,un patrimonio da difendere ad ogni costo.

Sigmund Freud,estratto da "Considerazioni attuali sulla guerra e la morte"
 Ci sembra che mai un avvenimento,come questa guerra, abbia distrutto un patrimonio tanto prezioso, comune all’ umanità, abbia provocato un tale perturbamento nelle intelligenze più lucide, abbia così profondamente svilito quanto vi era di più alto. Perfino la scienza ha perduto la sua serena imparzialità; gli scienziati, esasperati, le forniscono armi per poter contribuire. Da parte sua ogni nazione aveva stabilito, per gli individui che la compongono, norme morali assai elevate, alle quali dovevano conformarsi in ogni aspetto della loro vita tutti quanti avessero voluto partecipare dei vantaggi della civilizzazione. Queste prescrizioni esigevano molto dall'individuo: molte restrizioni e limitazioni, la rinuncia alla soddisfazione di tanti istinti. Innanzitutto all'individuo era proibito approfittare degli straordinari vantaggi che, nella concorrenza con i propri simili, si possono trarre dall’ uso dell'astuzia e della menzogna. Lo Stato progredito vedeva nell'osservanza di queste norme morali la condizione della propria esistenza, interveniva inesorabilmente ogni volta che si osava contravvenire ad esse, vedeva di mal occhio persino quanti volevano sottoporle alla prova dell'esame critico. Perciò ci si poteva aspettare che fosse esso stesso deciso a rispettarle a non far nulla contro di esse, perché, facendo ciò, sarebbe riuscito solo ad intaccare i fondamenti della propria esistenza.te loro, ad abbattere il nemico.. L'antropologo cerca di dimostrare che l'avversario appartiene ad una razza inferiore e degenerata; lo psichiatra scopre nello stesso perturbamenti psichici ed intellettuali. Ma probabilmente noi subiamo con troppa intensità gli effetti di quanto di male vi è nel nostro tempo, il che ci priva di ogni diritto di stabilire un confronto con altre epoche che non abbiamo vissute e la cui malvagità non ci ha toccati.Poi, la guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, ed stata per noi una fonte di... disinganno. Non solo essa è più cruenta e più distruttiva di tutte le guerre del passato, per i terribili perfezionamenti apportati alle armi di difesa e d'attacco, ma è altrettanto, se non più, crudele, accanita, spietata che qualunque di esse. Essa non tiene alcun conto delle limitazioni alle quali ci si attiene in tempo di pace e che formano ciò che chiamiamo il diritto delle genti, non riconosce i riguardi dovuti al ferito ed al medico, non fa alcuna distinzione tra combattenti e popolazione civile. Calpesta tutto ciò che trova sul suo cammino, e questo con una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovesse più esserci avvenire né pace tra gli uomini. Distrugge tutti i legami comunitari che ancora uniscono tra di loro i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro di sé rancori che renderanno impossibile, per molti anni, la ricostituzione di questi legami.
Essa ha dimostrato anche questo fatto appena concepibile: che i popoli civili si conoscono e si comprendono così poco che si allontanano con orrore l'uno dall'altro. (considerazioni attuali sulla morte e la guerra,Sigmund Freud)



Niccolò Casartelli          

mercoledì 25 maggio 2016

La prima fotografia di Hitler - Wisława Szymborska

Adolf Hitler è stato bambino; è difficile immaginarlo. Ha sorriso, strillato, giocato, come tutti i bambini. Da adulto, si è acceso di follia: che cosa ha scatenato in lui tutta quella ferocia, quella crudeltà? E quando tutto questo ha avuto inizio?
Wisława Szymborska (1923-2012), premio nobel polacco, scrive, senza mancare di ironia e umorismo, quando vede questa sua fotografia, del 1890. Hitler aveva un anno. Quarantatré anni dopo, il 30 gennaio 1933, sarà il leader del Terzo Reich, uno dei regimi più violenti al mondo.



"PIERWSZA FOTOGRAFIA HITLERA"

A któż to jest ten dzidziuś w kaftaniku?
Toż to Adolfek, syn państwa Hitlerów!
Może wyrośnie na doktora praw?
Albo będzie tenorem w operze wiedeńskiej?
Czyja to rączka, czyja, oczko, uszko, nosek?
Czyj brzuszek pełen mleka, nie wiadomo jeszcze:
drukarza, konsyliarza, kupca, księdza?
A dokąd te śmieszne nóżki zawędrują, dokąd?
Do ogródka, do szkoły, do biura, na ślub
może z córką burmistrza?

Bobo, aniołek, kruszyna, promyczek,
kiedy rok temu przychodził na świat
nie brakło znaków na niebie i ziemi:
wiosenne słońce, w oknach pelargonie,
muzyka katarynki na podwórku,
pomyślna wróżba w różowej bibułce,
tuż przed porodem proroczy sen matki:
gołąbka we śnie widzieć - radosna nowina,
tegoż schwytać - przybędzie gość długo czekany.
Puk puk, kto tam, to stuka serduszko Adolfka.

Smoczek, pieluszka, śliniaczek, grzechotka,
chłopczyna, chwalić Boga i odpukać, zdrów,
podobny do rodziców, do kotka w koszyku,
do dzieci z wszystkich innych rodzinnych albumów.
No, nie będziemy chyba teraz płakać,
pan fotograf pod czarną płachtą zrobi pstryk.

Atelier Klinger, Grabenstrasse Braunau,
a Braunau to niewielkie, ale godne miasto.
solidne firmy, poczciwi sąsiedzi,
woń ciasta drożdżowego i szarego mydła.
Nie słychać wycia psów i kroków przeznaczenia.
Nauczyciel historii rozluźnia kołnierzyk
i ziewa nad zeszytami.



TRADUZIONE ITALIANA

E chi è questo pupo in vestina?
Ma è Adolfino, il figlio dei signori Hitler!
Diventerà forse un dottore in legge
o un tenore dell'Opera di Vienna?
Di chi è questa manina, di chi, e gli occhietti, il nasino?
Di chi è il pancino pieno di latte, ancora non si sa:
d'un tipografo, d'un mercante, d'un prete?
Dove andranno queste buffe gambette, dove?
Al giardinetto, a scuola, in ufficio, alle nozze,
magari con la figlia del borgomastro?

Bebè, angioletto, tesoruccio, piccolo raggio,
quando veniva al mondo, un anno fa,
non mancavano segni nel cielo e sulla terra:
un sole primaverile, gerani alle finestre,
musica d'organetto nel cortile,
un fausto presagio nella carta velina rosa,
prima del parto un sogno profetico della madre:
se sogni un colombo - è una lieta novella,
se lo acchiappi - arriverà chi hai lungamente atteso.
Toc, toc, chi è, è il cuoricino di Adolfino.

Ciucciotto, pannolino, bavaglio, sonaglio,
il bambino, lodando Iddio e toccando ferro, è sano,
somiglia ai genitori, al gattino nel cesto,
ai bambini di tutti gli altri album di famiglia.
Be', adesso non piangeremo mica,
il fotografo farà clic sotto la tela nera.

Atelier Klinger, Grabenstrasse Braunau,
e Braunau è una cittadina piccola, ma dignitosa,
ditte solide, vicini dabbene,
profumo di torta e di sapone da bucato.
Non si sentono cani ululare né i passi del destino.
L'insegnante di storia allenta il colletto
e sbadiglia sui quaderni.


Irene Benincasa

martedì 24 maggio 2016

Io non ho mai parlato con te, Signore - Paolo Torresan

La poesia di Paolo Torresan, penna nera del Battaglione "Tolmezzo", Divisione "Julia", è scritta su un foglietto sporco di sangue, trovato sul suo corpo esanime lungo il fiume Don. Le parole di Torresan riflettono i sentimenti che i soldati provavano durante la guerra, l'angoscia, la paura, il senso di solitudine. La poesia vuole dimostrare quanto sia importante per i soldati non sentirsi abbandonati di fronte al grande nemico comune, la guerra. 

IO NON HO MAI PARLATO CON TE, SIGNORE

Io non ho mai parlato con te, Signore.
Mi dicevano che tu non esisti e io credetti che fosse vero.
Stasera però, quando stavo nascosto nel fosso di una granata, vidi il tuo cielo.
Chi avrebbe detto che per vederti sarebbe bastato stendermi sul dorso?
E' strano che non ti abbia incontrato prima ma solo in un inferno come questo.
L'offensiva ci aspetta tra poco.
Mio Dio, non ho paura da quando ho scoperto che sei vicino.
Tardi ti ho scoperto... senza paura vado alla morte.

Sara Moioli


martedì 17 maggio 2016

Da "Il sentiero dei nidi di ragno", di Italo Calvino

La violenza della guerra e delle armi viene descritta in questo passo da Calvino dal punto di vista di coloro che la combattono: semplici uomini che trascorrono il loro tempo come fossero all'osteria, come se il mattino seguente non dovessero sparare contro altri esseri umani, come se fra le mani tenessero un bicchiere di vino e non un fucile.

Per terra, sotto gli alberi del bosco, ci sono prati ispidi di ricci e stagni secchi pieni di foglie dure. A sera lame di nebbia si infiltrano tra i tronchi dei castagni e ne ammuffiscono i dorsi con le barbe rossicce dei muschi e i disegni celesti dei licheni. L'accampamento s'indovina prima d'arrivarci, per il fumo che si leva sulle cime dei rami e il cantare d'un coro basso che cresce approfondendosi nel bosco. E' un casolare di sassi, alto due piani, un piano di sotto per le bestie con per pavimento terra; e un piano di sopra fatto di rami perchè ci dormano i pastori.
Ora ci stanno uomini sopra e sotto, su lettiere di felci fresche e fieno, e il fumo del fuoco acceso a basso non ha finestre per uscire e s'ingolfa sotto le lavagne del tetto e brucia gole e occhi agli uomini che tossono. Ogni sera gli uomini s'acculano intorno alle pietre del focolare acceso al coperto perchè non lo vedano i nemici, e s'accavallano gli uni sopra gli altri, con Pin in mezzo illuminato dai riverberi che canta a gola spiegata come nell'osteria del vicolo. E gli uomini sono come quelli dell'osteria, a gomiti puntati ed occhi duri, solo non guardano rassegnati il viola dei bicchieri: nelle mani hanno il ferro delle armi e domani usciranno a sparare contro uomini: i nemici!




                           http://www.partigianiosoppo.it/easyne2/ThumbJpeg.ashx?Code=PartigianiOsoppo&Mode=&FilePath=Archivi/PartigianiOsoppo/Img/0001/1525.jpg&Width=260&Height=0

Anna Nessi

domenica 15 maggio 2016

Italo Calvino, da "Il sentiero dei nidi di ragno"

Quella di Pin, protagonista del romanzo di Italo Calvino, è una prospettiva abbassata e straniante, che presenta un mondo, cui siamo quotidianamente abituati, sotto una lente che lo deforma, e ne sottolinea così aspetti inediti ed originali. Lo sguardo di Pin sulle cose è quello di chi non conosce il mondo. Attraverso questa prospettiva, la realtà acquista una dimensione fiabesca, quasi astratta, in notevole dissonanza rispetto agli avvenimenti tragici che riporta la Resistenza. Pin descrive la verità del mondo che lo circonda con occhi innocenti e ingenui e ciò non lo rende parte nè del mondo dei grandi nè di quello dei piccoli, che non gli vogliono bene. Questo sentimento di inadeguatezza non era vissuto solo da Pin ma dallo stesso autore, che in questo modo vuole dissimulare il suo senso di smarrimento, avendo vissuto personalmente l'esperienza della Resistenza. In guerra dopotutto si perde ogni senso morale e l'uomo si sente solo a dover combattere per mantenersi in vita. Pin perciò aiuta a ritrovare con la sua allegria e la sua spontaneità un'umanità che sembra ormai essersi persa nella crudeltà della guerra.

I. Calvino, "Il sentiero dei nidi di ragno"

"A volte il fare uno scherzo cattivo lascia un gusto amaro, e Pin si trova solo a girare nei vicoli, con tutti che gli gridano improperi e lo cacciano via. Si avrebbe voglia d’andare con una banda di compagni, allora, compagni cui spiegare il posto dove fanno il nido i ragni, o con cui fare battaglie con le canne, nel fossato. Ma i ragazzi non vogliono bene a Pin: è l’amico dei grandi, Pin, sa dire ai grandi cose che li fanno ridere e arrabbiare, non come loro che non capiscono nulla quando i grandi parlano. Pin alle volte vorrebbe mettersi coi ragazzi della sua età, chiedere che lo lascino giocare a testa e pila, e che gli spieghino la via per un sotterraneo che arriva fino in piazza Mercato. 
Ma i ragazzi lo lasciano a parte, e a un certo punto si mettono a picchiarlo; perché Pin ha due braccine smilze smilze ed è il più debole di tutti. Da Pin vanno alle volte a chiedere spiegazioni su cose che succedono tra le donne e gli uomini; ma Pin comincia a canzonarli gridando per il carrugio e le madri richiamano i ragazzi: – Costanzo! Giacomino! Quante volte te l’ho detto che non devi andare con quel ragazzo cosi maleducato! Le madri hanno ragione: Pin non sa che raccontare storie d’uomini e donne nei letti e di uomini ammazzati o messi in prigione, storie insegnategli dai grandi, specie di fiabe che i grandi si raccontano tra loro e che pure sarebbe bello stare a sentire se Pin non le intercalasse di canzonature e di cose che non si capiscono da indovinare. E a Pin non resta che rifugiarsi nel mondo dei grandi, dei grandi che pure gli voltano la schiena, dei grandi che pure sono incomprensibili e distanti per lui come per gli altri ragazzi, ma che sono più facili da prendere in giro, con quella voglia delle donne e quella paura dei carabinieri, finché non si stancano e cominciano a scapaccionarlo. Ora Pin entrerà nell’osteria fumosa e viola, e dirà cose oscene, improperi mai uditi a quegli uomini fino a farli imbestialire e a farsi battere, e canterà canzoni commoventi, struggendosi fino a piangere e a farli piangere, e inventerà scherzi e smorfie cosi nuove da ubriacarsi di risate, tutto per smaltire la nebbia di solitudine che gli si condensa nel petto le sere come quella.”


   
                                    


FRANCESCA SORMANI


giovedì 12 maggio 2016

'Tristano muore' di Antonio Tabucchi - Hiroshima, una delle mostruosità dei vincitori



Hiroshima, una delle mostruosità dei vincitori

Tristano è ormai in fin di vita e propone ad uno scrittore i suoi pensieri circa un evento pregnante della storia, l’utilizzo dell’ordigno atomico da parte degli Stati Uniti ai danni del Giappone. La sua visione è  lucida, priva di facili manicheismi: Tristano riconosce la colpa americana e comprende l’impossibilità di una netta distinzione tra bene e male, maturando la consapevolezza di vivere in un mondo dove la verità assume tinte sempre più incerte e sfumate.

“...sai invece quando tutto gli fu chiaro? Quando tutto pareva già chiaro ed era già finito, il sei agosto del quarantacinque. Alle otto e un quarto del mattino, se vuoi sapere l’ora. Quel giorno Tristano capì che il mostro ormai vinto stava lasciando il posto alle mostruosità dei vincitori... era il secondo crimine contro l’umanità di questo allegro secolo che sta finendo... quel mattino la prima atomica utilizzata come arma di distruzione di massa cadde su una città del nostro mondo annientandolo ed incenerendo duecentomila persone. Dico duecentomila, e tralascio le migliaia morte dopo, e quelle nate morte, e tutti i cancri... e non erano soldati, erano cittadini inermi che avevano commesso il delitto di non aver nessuna colpa... C’è un luogo, a Hiroshima, si chiama Gembaku Dom, è un padiglione, vuol dire Cupola atomica, fu l’epicentro dell’esplosione, in quel luogo la temperatura al suolo raggiunse lo stesso calore della superficie solare, vicino al cenotafio con la fiamma della pace c’è un pezzo di pietra, è la soglia della porta di un edificio, una normale soglia della nostre case, dove mettiamo lo zerbino per pulirci le scarpe. Dentro quella pietra, di marmo, mi pare, assorbita come una carta assorbente succhia l’inchiostro, c’è l’impronta di un corpo umano a braccia spalancate. E’ quello che resta del corpo di un uomo che si liquefece sulla soglia di casa sua alle otto e un quarto di quel sei agosto del quarantacinque... Se puoi, fai un viaggio, valla a vedere, è una visita istruttiva... e’ stato detto che quelle vittime furono inutili, la testa del mondo era già stata schiacciata a Dresda e a Berlino, e agli americani per piegare il Giappone sarebbero bastate le armi convenzionali. E’ un errore, non furono affatto inutili, ai vincitori furono utilissime, in quel modo fecero capire al mondo che i nuovi padroni erano loro... la Storia e’ una creatura glaciale, non ha pietà di niente e di nessuno, quel filosofo tedesco che si suicidò in una pensioncina di confine fuggendo da Franco e da Hitler e da tutti e forse anche da se stesso aveva riflettuto troppo su questa dama priva di pietà che gli uomini corteggiano invano, non gli deve aver giovato... nelle sue riflessione scrisse che davanti al nemico, se vince, neanche i morti saranno al sicuro... di qualsiasi nemico si tratti, aggiungerei, anche il nemico dei cattivi, perché’ per essere nemici dei cattivi non si può fare i buoni, tu che ne pensi?... Capisco la tua obiezione, sono stato troppo sintetico, certo che se vinceva il male non c’era più rimedio... ma del bene volevo dire che... insomma... il bene, ecco che il bene ha vinto sul male, solo che c’è un po’ di male di troppo in quel bene, e un po’ troppa imperfezione in quella verità... La verità e’ imperfetta...”





Francesco Mazzone




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lunedì 9 maggio 2016

Zeno guarisce diventando profittatore di guerra, Italo Svevo


Nell'ultimo capitolo  della Coscienza di Zeno di Italo Svevo, il protagonista annuncia di essere stato guarito, non dalla psico-analisi, ma dal commercio, favorito dalla nuova situazione creata dalla guerra: Zeno ha infatti cominciato a comprare merci di ogni tipo, aspettando il momento opportuno per rivenderle ad acquirenti bisognosi di tutto. Egli ha saputo adeguare il proprio comportamento alla situazione, diventando uno speculatore, e ha finalmente ottenuto il successo. Tuttavia, in questo equilibrio che Zeno ha faticosamente raggiunto, il lettore capisce che la guarigione raggiunta è solo apparente: dato che la speculazione permette a Zeno di omologarsi alla massa di compratori, il protagonista guarisce diventando malato come ogni uomo della società. La voce dissacrante di Svevo si concentra sul valore distruttivo della malattia umana, in quanto un individuo per guarire deve necessariamente imporsi sugli altri, di conseguenza la salute di uno comporta inevitabilmente la distruzione progressiva dell'umanità, come l'autore spiega nelle ultime parole dell'opera.

I. Svevo, La coscienza di Zeno 

24 marzo 1916
[...] Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare. Sottolineo questo verbo perché ha un significato più alto di prima della guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna. L’Olivi non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero messo, secondo l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per così dire liquido, perché più mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli. 
Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l’incenso mai più avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che m’era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute. [...]



Valentina Lamarucciola