Abbiamo portato nella città la nostra esperienza. Una prima volta, per l'Open Day del Razionalismo, con un reading proprio all'ombra del Monumento ai Caduti.
Qui il link alla pagina del quotidiano locale che ne ha parlato diffusamente:
http://www.bibazz.it/culture/open-day-razionalismo-i-ragazzi-del-volta-raccontano/
Una seconda volta, in occasione della serata dedicata ai progetti teatrali del Liceo.
Ecco il link:
http://www.bibazz.it/culture/volta-quando-il-teatro-si-fa-a-scuola/
Grazie a tutti!
La classe III C del Liceo Classico "Volta" di Como nell'anno scolastico 2015 /2016 propone una scelta di brani per riflettere sulla guerra nel Novecento.
martedì 14 giugno 2016
domenica 5 giugno 2016
Schindler's List, monologo finale, Steven Spielberg, 1993
“La resa incondizionata della Germania è stata appena annunciata. A mezzanotte la guerra finirà ufficialmente. Domani inizierete a cercare notizie dei sopravvissuti delle vostre famiglie. Nella maggior parte dei casi... non li troverete. Dopo sei lunghi anni di omicidi, le vittime avranno il cordoglio di tutto il mondo. Noi siamo vivi. Molti di voi sono venuti da me a ringraziarmi. Ringraziate voi stessi. Ringraziate l'impavido Stern, e alcuni altri che preoccupati per voi hanno affrontato la morte ogni istante. Io sono un membro del partito nazista. Sono un fabbricante di munizioni varie. Sfruttatore del lavoro di schiavi. Io sono... un criminale. A mezzanotte voi sarete liberi e io braccato. Rimarrò con voi fino a cinque minuti dopo la mezzanotte, allo scadere dei quali – e spero che mi perdonerete – dovrò fuggire.
(Si rivolge alle SS)
So che avete ricevuto ordini dal nostro comandante, che a sua volta li ha ricevuti dai suoi superiori, di eliminare la popolazione di questo campo. Questo è il momento di farlo. Eccoli, sono tutti qui. È la vostra opportunità. Oppure, potete andarvene dalle vostre famiglie da uomini e non da assassini.
(Le SS escono lentamente; Schindler torna a rivolgersi ai lavoratori)
In memoria delle innumerevoli vittime fra il vostro popolo, io vi chiedo di osservare tre minuti di silenzio.
Il monologo è tratto dal film diretto dal pluripremiato Steven Spielberg, Schindler's List. Esso ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali per lo straordinario impatto che la trasposizione ebbe sul pubblico. Il film tratta il tema della shoa e racconta la storia di un imprenditore industriale, iscritto al partito nazista, che fonda una fabbrica di granate sottraendo anche denaro a ebrei con la promessa di restituirli, offrendo loro lavoro nella fabbrica. La straordinarietà reale della figura di Schindler sta nel fatto che l'impresa da lui creata permetterà di salvarsi a 1.100 ebrei destinati allo sterminio.
L'apice della commozione si raggiunge nella scena finale, la quale impostata come un resoconto dell'abominio nazista, fornisce speranze di amore e fratellanza, che in quegli anno sembravano perdute.
Ancor più significativa ed emozionante, la frase tratta dal Talmud e incisa sull'anello che gli operai regalano all'imprenditore: "Chi salva una vita salva il mondo intero". Queste parole sottolineano quanto fosse insignificante e priva di finalità l'opera tedesca nella Seconda Guerra Mondiale in confronto a quanto più potesse valere il gesto di un solo uomo, indirizzato a un bene, non politico, non religioso, non etico, ma universale: la cooperazione e la salvezza.
>Andrea Peterlin
Mio fratello aviatore di Bertolt Brecht
MIO FRATELLO AVIATORE -Bertolt Brecht
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio; e prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che s'è conquistato
è sui monti del Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.
Bertolt Brecht è un famoso poeta e drammaturgo tedesco, che in periodo nazista dovette lasciare la Germania. Durante l'esilio il poeta scrisse delle raccolte di poesie, di cui "Mio fratello aviatore" fa parte. Egli era sicuro che presto sarebbe scoppiato un secondo conflitto mondiale e sentì la necessità di scrivere componimenti che risvegliassero la coscienza dei lettori. Con questa breve poesia, caratterizzata da versi scarni e velenosi e da una sottile ironia, l'autore vuole denunciare i miti che Hitler diffondeva per ottenere consenso, soprattutto quello del "popolo tedesco come conquistatore per ottenere nuovi territori e dunque benessere", espresso dalla frase "il popolo nostro ha bisogno di spazio". La sete di potere tedesca, secondo il poeta, avrebbe portato soltanto alla morte e decise di rappresentare la sua visione, riportando quasi crudelmente le misure della tomba dell'aviatore, vittima di un regime autodistruttivo e di una guerra spietata e spaventosa.
Beatrice Sedda
sabato 4 giugno 2016
Il trauma della Grande Guerra nel fantasy, J.R.R.Tolkien
La Grande Guerra ha trasformato anche il genere fantasy
Più di 80000 soldati inglesi alla fine della Grande Guerra soffrirono di psicosi traumatica, a causa delle esperienze drammatiche vissute durante il conflitto, e tra questi anche J.R.R. Tolkien. Egli partecipò alla Guerra e nel periodo di convalescenza in ospedale conobbe gli effetti di tale condizione, i cui sintomi sono allucinazioni vivide, incubi che riportano agli eventi traumatici, ansia, depressione, confusione emotiva e alterazioni della personalità. A causa di questa esperienza, aldilà di ogni aspettativa e rompendo ogni legame con le strutture tipiche della tradizione, ne Il signore degli anelli, Frodo lascia la Terra di Mezzo per cercare la vera pace, nonostante sia giunto per lui il momento di godersi la tranquillità della Contea; egli non è più in grado di tornare indietro alla sua vecchia vita, è ferito in modo incurabile, dopo gli orrori che la guerra nella Terra di Mezzo gli ha mostrato. In questo senso, Frodo è figura del grande cambiamento che la Guerra ha portato negli uomini e, di conseguenza, nella letteratura: nessuno è stato più in grado di essere ciò che è stato prima.
Più di 80000 soldati inglesi alla fine della Grande Guerra soffrirono di psicosi traumatica, a causa delle esperienze drammatiche vissute durante il conflitto, e tra questi anche J.R.R. Tolkien. Egli partecipò alla Guerra e nel periodo di convalescenza in ospedale conobbe gli effetti di tale condizione, i cui sintomi sono allucinazioni vivide, incubi che riportano agli eventi traumatici, ansia, depressione, confusione emotiva e alterazioni della personalità. A causa di questa esperienza, aldilà di ogni aspettativa e rompendo ogni legame con le strutture tipiche della tradizione, ne Il signore degli anelli, Frodo lascia la Terra di Mezzo per cercare la vera pace, nonostante sia giunto per lui il momento di godersi la tranquillità della Contea; egli non è più in grado di tornare indietro alla sua vecchia vita, è ferito in modo incurabile, dopo gli orrori che la guerra nella Terra di Mezzo gli ha mostrato. In questo senso, Frodo è figura del grande cambiamento che la Guerra ha portato negli uomini e, di conseguenza, nella letteratura: nessuno è stato più in grado di essere ciò che è stato prima.
One evening Sam came into the study and found his master looking very strange. He was very pale and his eyes seemed to see things far away.
‘What’s the matter, Mr. Frodo?’ said Sam.
‘I am wounded,’ he answered, ‘wounded; it will never really heal.’
[...]
‘Where are you going, Master?’ cried Sam, though at last he understood what was happening.
‘To the Havens, Sam,’ said Frodo.
‘And I can’t come.’
‘No, Sam. Not yet anyway, not further than the Havens. Though you too were a Ring-bearer, if only for a little while. Your time may come. Do not be too sad, Sam. You cannot be always torn in two. You will have to be one and whole, for many years. You have so much to enjoy and to be, and to do.’
‘But,’ said Sam, and tears started in his eyes, ‘I thought you were going to enjoy the Shire, too, for years and years, after all you have done.’
‘So I thought too, once. But I have been too deeply hurt, Sam. I tried to save the Shire, and it has been saved, but not for me. It must often be so, Sam, when things are in danger: some one has to give them up, lose them, so that others may keep them. But you are my heir: all that I had and might have had I leave to you. And also you have Rose, and Elanor; and Frodo-lad will come, and Rosie-lass, and Merry, and Goldilocks, and Pippin; and perhaps more that I cannot see. Your hands and your wits will be needed everywhere. You will be the Mayor, of course, as long as you want to be, and the most famous gardener in history; and you will read things out of the Red Book, and keep alive the memory of the age that is gone, so that people will remember the Great Danger and so love their beloved land all the more. And that will keep you as busy and as happy as anyone can be, as long as your part of the Story goes on.
‘Come now, ride with me!’
(Lord of the Rings, The Return of the King, J.R.R. Tolkien)
Una sera Sam entrò nello studio e trovò il suo padrone molto strano. Era pallido, e i suoi occhi sembravano vedere cose lontane. «Che c’è che non va, signor Frodo?», disse Sam.
«Sono ferito», egli rispose, «ferito; non guarirò mai del tutto».
[...]
«Dove state andando, padrone?», gridò Sam, benché avesse finalmente capito quel che stava succedendo.
«Ai Rifugi, Sam», disse Frodo.
«E io non posso venire».
«No, Sam. Non ancora, comunque, non oltre i Rifugi. Benché sia stato anche tu Portatore dell’Anello, per poco tempo. Forse verrà la tua ora. Non essere troppo triste, Sam. Non puoi essere sempre lacerato in due. Dovrai essere uno e sano per molti anni. Hai tante cose da godere, da vivere, da fare».
«Ma», disse Sam, e le lacrime incominciarono a sgorgargli dagli occhi, «credevo che anche voi voleste godervi la Contea, per anni e anni, dopo tutto quello che avete fatto».
«Anch’io lo credevo, un tempo. Ma sono stato ferito troppo profondamente, Sam. Ho tentato di salvare la Contea, ed è stata salvata, ma non per merito mio. Accade sovente così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinché altri possano conservarle. Ma tu sei il mio erede: tutto ciò che ebbi e che avrei potuto avere io, lo lascio a te; e poi tu hai Rosa, ed Elanor, e verranno anche il piccolo Frodo e la piccola Rosa, e Merry e Cioccadoro e Pipino, e forse altri che ancora non vedo. Le tue mani e il tuo cervello saranno necessari dappertutto. Sarai Sindaco, naturalmente, finché vorrai, e il più famoso giardiniere della storia; e leggerai brani del Libro Rosso, mantenendo vivo il ricordo dei tempi passati, affinché la gente ricordi il Grande Pericolo ed ami ancora di più il suo caro paese. Tutto ciò ti renderà occupato e felice finché durerà la tua parte nella Storia.
«Coraggio, ora cavalca con me!».
(Il Signore degli Anelli, Il Ritorno del Re, J.R.R. Tolkien)
venerdì 3 giugno 2016
L'amore ai tempi della guerra - la lettera di Albano Rocco, soldato
Un ultimo amaro e doloroso saluto prima di incamminarsi verso una rotta sconosciuta, verso una guerra di cui non si intravede la fine, ma solo la crudeltà, l'insensatezza e l'indifferenza; l'indifferenza verso due amanti, la cui unica intenzione era vivere una vita lunga e felice insieme, che dovettero dirsi addio, per un tempo indeterminato, forse anche per sempre, per una guerra che non avevano mai scelto.
Ma la guerra, con la sua spietatezza, non può inaridire il cuore di un uomo innamorato: questo trapela dalle tenere e affettuose parole scritte da Albano Rocco, un soldato italiano partito per l'Albania nel 1943 e in seguito fatto prigioniero dai tedeschi, in una lettera indirizzata alla sua amata Rocchina, suo unico barlume di speranza in mezzo a tanta agonia.
Perché l'amore è l'unica speranza che può vincere la guerra e ricordarci che siamo fatti per stare uniti, non autodistruggerci.
Mia dolce Rocchina,
E' giunta la mia ora che la cara Patria mi ha chiamato a compiere il mio proprio dovere. Ho partito lasciando te ed i cari genitori, ma non sapendo mai più al mio ritorno da te e da voi tutti miei cari. Nel senso che il nostro Duce mi ha chiamato a compiere il mio dovere ove chi osa a interrompere la nostra bella Italia tutta fiorente di fedeltà e amore. Nel caso il mio destino mi fosse contrario; mia cara Rocchina non piangermi, e non piangetemi tanto per me. Te lo giuro cara che se dovessi morire, morirei contento della speranza che verrà un bel giorno una pace giusta e vera per chi resta a godere questo mondo alla fine di questa guerra così strepitosa e piena d’angoscia per i propri cari. Rocchina ti chiedo un grande favore: non rendermi infelice e non abbandonarmi dopo morto se il destino mi chiama a questo: sono in guerra; amami lo stesso vogliami bene e sappi conservare il tuo amore verso di me, pensa il nostro passato, passato di bene e di felicità. Ma non fosse così che il nostro destino arriverebbe a questo cara, credo bene mia dolce Rocchina, alla mia presa nell’imbarcarmi sul piroscafo che mi conduceva verso il lontano destino che altrove dovevo aver a che fare con gente cruda e malvagia, piansi, piansi ma non riuscivo a scacciare via quei tristi pensieri così malinconici; a che andavano? Verso di te mia cara Rocchina rammentavo tutto il nostro passato, quanto divertimento quanta gioia, tutto è sfumato; tutto è passato. Non oso altro cara che chiederti di perdonarmi; avendoti recato dei disturbi non sapendo che il mio destino, sarebbe stato stravolto nell’abisso più profondo del globo terrestre. Se tornassi farei il possibile per non recarti mai più disturbo. Se il signore mi castiga a non fare più ritorno nel tuo seno, avrai la mia cara mamma che ti reca bene, per tutta la sua vita, cercate di collaborare sempre assieme, solo promettimi di non oltraggiare il mio nome se non torno. Termino con caro saluto a tutta la famiglia.
A te per sempre
il tuo caro marito Albano Rocco. Scritta a bordo in via per l’Albania.
Annalisa Baffa
Ma la guerra, con la sua spietatezza, non può inaridire il cuore di un uomo innamorato: questo trapela dalle tenere e affettuose parole scritte da Albano Rocco, un soldato italiano partito per l'Albania nel 1943 e in seguito fatto prigioniero dai tedeschi, in una lettera indirizzata alla sua amata Rocchina, suo unico barlume di speranza in mezzo a tanta agonia.
Perché l'amore è l'unica speranza che può vincere la guerra e ricordarci che siamo fatti per stare uniti, non autodistruggerci.
Mia dolce Rocchina,
E' giunta la mia ora che la cara Patria mi ha chiamato a compiere il mio proprio dovere. Ho partito lasciando te ed i cari genitori, ma non sapendo mai più al mio ritorno da te e da voi tutti miei cari. Nel senso che il nostro Duce mi ha chiamato a compiere il mio dovere ove chi osa a interrompere la nostra bella Italia tutta fiorente di fedeltà e amore. Nel caso il mio destino mi fosse contrario; mia cara Rocchina non piangermi, e non piangetemi tanto per me. Te lo giuro cara che se dovessi morire, morirei contento della speranza che verrà un bel giorno una pace giusta e vera per chi resta a godere questo mondo alla fine di questa guerra così strepitosa e piena d’angoscia per i propri cari. Rocchina ti chiedo un grande favore: non rendermi infelice e non abbandonarmi dopo morto se il destino mi chiama a questo: sono in guerra; amami lo stesso vogliami bene e sappi conservare il tuo amore verso di me, pensa il nostro passato, passato di bene e di felicità. Ma non fosse così che il nostro destino arriverebbe a questo cara, credo bene mia dolce Rocchina, alla mia presa nell’imbarcarmi sul piroscafo che mi conduceva verso il lontano destino che altrove dovevo aver a che fare con gente cruda e malvagia, piansi, piansi ma non riuscivo a scacciare via quei tristi pensieri così malinconici; a che andavano? Verso di te mia cara Rocchina rammentavo tutto il nostro passato, quanto divertimento quanta gioia, tutto è sfumato; tutto è passato. Non oso altro cara che chiederti di perdonarmi; avendoti recato dei disturbi non sapendo che il mio destino, sarebbe stato stravolto nell’abisso più profondo del globo terrestre. Se tornassi farei il possibile per non recarti mai più disturbo. Se il signore mi castiga a non fare più ritorno nel tuo seno, avrai la mia cara mamma che ti reca bene, per tutta la sua vita, cercate di collaborare sempre assieme, solo promettimi di non oltraggiare il mio nome se non torno. Termino con caro saluto a tutta la famiglia.
A te per sempre
il tuo caro marito Albano Rocco. Scritta a bordo in via per l’Albania.
Annalisa Baffa
San Martino del Carso - Giuseppe Ungaretti
G. UNGARETTI - SAN MARTINO DEL CARSO
Conclusasi la Sesta Battaglia dell'Isonzo, Giuseppe Ungaretti commenta i terribili effetti della guerra e gli orrendi strascichi che essa si lascia alle spalle: dei muri degli edifici non restano che brandelli; dei soldati, compagni del poeta, non molti sono rimasti.
Tuttavia, nel paese di San Martino del Carso, distrutto dalla guerra, Ungaretti celebra la memoria dei compagni caduti sul campo, condensando in pochi versi, densi di significato, l'importanza del rapporto umano, anche in ambienti di totale desolazione.
In mezzo alle macerie, il dolore, causato dal ricordo di ognuna delle corrispondenze intrattenute con chi non è sopravvissuto, è forte, tanto da tormentare il cuore del poeta, ben più dell'opprimente devastazione del campo di battaglia.
Emerge dai versi, dunque, come i danni provocati dai conflitti siano di duplice natura: alla distruzione, alle menomazioni e ai morti, si aggiunge una moltitudine di reduci, inevitabilmente e indissolubilmente segnati dalla tragedia vissuta.
SAN MARTINO DEL CARSO
Di queste
case
Non è
rimasto
Che qualche
Brandello di
muro
Di tanti
Che mi
corrispondevano
Non è
rimasto
Neppure
tanto
Ma nel cuore
Nessuna
croce manca
È il mio
cuore
Il paese più
straziato
Paolo Ciccardini
"Niente di nuovo sul fronte occidentale" di E. M. Remarque
Questo brano è tratto dal capitolo finale del romanzo "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di E. M. Remarque e narra gli ultimi giorni di guerra del protagonista, il soldato tedesco Paul Baumer, arruolatosi volontario nel 1914 a diciannove anni sulla spinta degli ideali di onore e difesa della patria proposti dalla propaganda nazionale e diffusi soprattutto nelle scuole attraverso i docenti. Paul, narratore in prima persona del romanzo, ben presto si scontra con gli orrori della guerra di trincea, con la brutalità dei combattimenti e con la morte di tutti i suoi amici un tempo compagni di scuola e dopo essere sopravvissuto al disumanizzante conflitto durato più di quattro anni fino al 1918 e sempre più insensato, si rende conto che anche l'armistizio tanto sperato e ormai imminente non gli restituirebbe le speranze e i sogni che aveva prima della guerra né lo salverebbe dal senso di solitudine che attanaglia la sua generazione, ormai segnata dalla violenza e dalla paura.
E' l'autunno. Dei vecchi compagni non siamo più molti qui. Io sono l'ultimo dei sette che venimmo insieme dalla scuola.
Tutti parlano di pace e di armistizio. Tutti aspettano. Se anche questa volta fosse una delusione, guai; le speranze son troppo forti, non si posso rintuzzare senza farle esplodere. Se non sarà la pace, sarà la rivoluzione.
Mi danno due settimane di riposo, perché ho respirato un po' di gas. Siedo in un piccolo giardino, tutto il giorno al sole. L'armistizio viene tra poco, ora lo chiedo anch'io. Ce n'andremo a casa.
(...)
E neppure ci potranno capire. Davanti a noi infatti sta una generazione che ha, sì, passato con noi questi anni, ma che aveva già prima un focolare ed una professione, ed ora ritorna ai suoi posti d'un tempo, e vi dimenticherà la guerra; dietro a noi sale un'altra generazione, simile a ciò che fummo noi un tempo; la quale ci sarà estranea e ci spingerà da parte. Noi siamo inutili a noi stessi. Andremo avanti, qualcuno si adatterà, altri si rassegneranno, e molti rimarranno disorientati per sempre; passeranno gli anni, e finalmente scompariremo.
(...)
Mi alzo: sono molto contento. Vengano i mesi e gli anni, non mi prenderanno più nulla. Sono tanto solo, tanto privo di speranze che posso guardare dinanzi a me senza timore. La vita, che mi ha portato attraverso questi anni, è ancora nelle mie mani e nei miei occhi. Se ioabbia saputo dominarla, non so. Ma finchè dura, essa si cercherà la sua strada, vi consenta o non vi consenta quell'essere, che nel mio interno dice "io".
Egli cadde nell'ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: "Niente di nuovo sul fronte occidentale".
Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un'espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così.
Lorenzo Abate
E' l'autunno. Dei vecchi compagni non siamo più molti qui. Io sono l'ultimo dei sette che venimmo insieme dalla scuola.
Tutti parlano di pace e di armistizio. Tutti aspettano. Se anche questa volta fosse una delusione, guai; le speranze son troppo forti, non si posso rintuzzare senza farle esplodere. Se non sarà la pace, sarà la rivoluzione.
Mi danno due settimane di riposo, perché ho respirato un po' di gas. Siedo in un piccolo giardino, tutto il giorno al sole. L'armistizio viene tra poco, ora lo chiedo anch'io. Ce n'andremo a casa.
(...)
E neppure ci potranno capire. Davanti a noi infatti sta una generazione che ha, sì, passato con noi questi anni, ma che aveva già prima un focolare ed una professione, ed ora ritorna ai suoi posti d'un tempo, e vi dimenticherà la guerra; dietro a noi sale un'altra generazione, simile a ciò che fummo noi un tempo; la quale ci sarà estranea e ci spingerà da parte. Noi siamo inutili a noi stessi. Andremo avanti, qualcuno si adatterà, altri si rassegneranno, e molti rimarranno disorientati per sempre; passeranno gli anni, e finalmente scompariremo.
(...)
Mi alzo: sono molto contento. Vengano i mesi e gli anni, non mi prenderanno più nulla. Sono tanto solo, tanto privo di speranze che posso guardare dinanzi a me senza timore. La vita, che mi ha portato attraverso questi anni, è ancora nelle mie mani e nei miei occhi. Se ioabbia saputo dominarla, non so. Ma finchè dura, essa si cercherà la sua strada, vi consenta o non vi consenta quell'essere, che nel mio interno dice "io".
Egli cadde nell'ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: "Niente di nuovo sul fronte occidentale".
Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un'espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così.
giovedì 2 giugno 2016
Una questione privata, Beppe Fenoglio
Nella parte conclusiva del romanzo di Beppe Fenoglio, Una questione privata, l’autore ritrae il giovane partigiano Milton in una disperata fuga. La continua ripetizione del verbo “correva” conferisce ritmo e drammaticità all’azione, trasmettendo anche al lettore il senso di angoscia del protagonista. Milton pare combattuto tra la volontà di morire, quando desidera che una pallottola lo colpisca in fronte e quando cerca un modo per uccidersi, e l’istinto di sopravvivenza, che lo spinge a correre quasi per inerzia. La sua vista è offuscata, la sua mente non più lucida lo priva del senso della realtà, impedendogli di percepire se egli sia ancora vivo o già morto. La sensazione di straniamento lo spinge a cercare il contatto con altri uomini. Vivo o morto che egli sia, permane nel protagonista la consapevolezza di essere in trappola. L’opera, pubblicata postuma nel 1963, si conclude con un finale aperto: ognuno può fornire la propria interpretazione riguardo alla fine di Milton. Fenoglio non dice che Milton muore, ma solo che “crolla”: il lettore non sa se egli muoia per le ferite o se cada per lo sfinimento della fuga, accentuato dalla delusione d’amore.
“Arrenditi!”
Sparavano da due lati, dal ciglione e dall’arginello, urlando a lui e a se stessi, eccitandosi, indirizzandosi, rimproverandosi, incoraggiandosi. [...] Due pallottole si conficcarono in terra vicino a lui, morbide, amichevoli. Si rialzò e corse, senza forzare, rassegnatamente, senza nemmeno zigzagare. Le pallottole arrivavano innumerevoli, a branchi, a sfilze. Arrivavano anche diagonali e gli sparavano come d’anticipo, come a un uccello. Queste diagonali lo atterrivano infinitamente di più, le dirette avevano tutte le probabilità di farlo secco. “Nella testa, nella testaaaa!” Non aveva più la pistola per spararsi, non vedeva un tronco contro cui fracassarsi la testa, correndo alla cieca si alzò le due mani al collo per strozzarsi.
Sparavano da due lati, dal ciglione e dall’arginello, urlando a lui e a se stessi, eccitandosi, indirizzandosi, rimproverandosi, incoraggiandosi. [...] Due pallottole si conficcarono in terra vicino a lui, morbide, amichevoli. Si rialzò e corse, senza forzare, rassegnatamente, senza nemmeno zigzagare. Le pallottole arrivavano innumerevoli, a branchi, a sfilze. Arrivavano anche diagonali e gli sparavano come d’anticipo, come a un uccello. Queste diagonali lo atterrivano infinitamente di più, le dirette avevano tutte le probabilità di farlo secco. “Nella testa, nella testaaaa!” Non aveva più la pistola per spararsi, non vedeva un tronco contro cui fracassarsi la testa, correndo alla cieca si alzò le due mani al collo per strozzarsi.
Correva,
sempre più veloce, più sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno
come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai
corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto,
annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi
sgranati e semiciechi. Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in
un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici. Correva
ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica
vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla
sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. [...] Aveva
bisogno di vedere gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno
spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. [...] Correva,
con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era
perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora
correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e
Milton vi puntò diritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e
far muro e a un metro da quel muro crollò.
Lavinia Frediani
Pablo Neruda "Ode all'atomo"
Pablo Neruda è vissuto in un periodo e in una nazione, il Cile, teatro di molti conflitti. Il poeta, componendo “Ode all’atomo”, espresse tutte le preoccupazioni di uomini che vissero il dramma della guerra per immortalare indelebilmente gli eventi del 6 agosto 1945, giorno in cui l’aviazione americana sganciò su Hiroshima la prima bomba atomica della storia. Questa poesia esprime, con immagini forti e fantasiose, le ansie e le dubbi che l’uomo nel Novecento ha nutrito nei confronti dell’energia atomica. L’autore al contempo descrive l’atomo come elemento innocente e puro, il cui potenziale distruttivo si libera solamente nel momento in cui nelle mani di uomini crudeli. La consapevolezza della corruzione morale che ha caratterizzato l’uomo del Novecento determina nel poeta un’angoscia esistenziale, che trova la sua dimensione più appropriata in questi versi brevi, ma incalzanti.
Piccolissima
stella
sembravi
per sempre
sepolta,
e nel metallo, nascosto,
il tuo diabolico
fuoco.
Un giorno
bussarono
alla tua minuscola
porta:
era l'uomo.
Con una
scarica
ti liberarono,
vedesti il mondo,
uscisti
nel giorno,
percorresti
citta',
il tuo gran fulgore arrivava
a illuminare le esistenze,
eri
un frutto terribile
d'elettrica bellezza,
venivi
a affrettare le fiamme
dell'estate,
e allora
giunse
armato
d'occhiali di tigre
e armatura,
con camicia quadrata,
con sulfurei baffi
e coda di porcospino,
giunse il guerriero
e ti sedusse:
dormi,
ti mormorò,
avvolgiti tutto,
atomo, ché sembri
un dio greco,
una primaverile
modista parigina,
adàgiati
sulla mia unghia,
entra in questa cassettina,
e allora
il guerriero
ti mise nel suo gilè
come se fossi soltanto
una pillola
nordamericana,
e se ne andò per il mondo
e ti lasciò cadere
a Hiroshima.
Ci svegliammo.
L'aurora
si era consumata.
Tutti gli uccelli
caddero calcinati.
Un odore
di feretro,
di gas delle tombe,
tuono' per gli spazi.
Ascese orrenda
la forma del castigo
sovrumano,
fungo cruento, cupola,
gran fumata,
spada
dell'inferno.
Ascese bruciante l'aria
e si sparse la morte
a onde parallele,
e raggiunse
la madre addormentata
col suo bambino,
il pescatore del fiume
e i pesci,
la panetteria
e i pani,
l'ingenere
e i suoi edifici,
tutto fu polvere
che mordeva,
aria assassina.
La città
sgretolò i suoi ultimi alveoli,
cadde, cadde d'un tratto,
demolita,
fradicia,
gli uomini
furono d'improvviso lebbrosi,
afferravano
la mano dei figli
e la piccola mano
rimaneva nella loro.
Così, dal tuo nascondiglio,
dal segreto
manto di pietra
dove il fuoco dormiva,
ti trassero,
scintilla accecante,
luce rabbiosa
per distruggere le vite,
per infestare lontane esistenze,
sotto il mare,
nell' aria,
sulle spiagge,
nell' ultimo
gomito dei porti,
per cancellare
i semi,
per assassinare i germi,
per ostacolare la corolla,
ti destinarono, atomo,
a lasciare rase al suolo
le nazioni,
a tramutare l'amore in nera pustola,
a bruciare cuori ammonticchiati,
ad annebbiare il sangue.
Oh folle scintilla,
torna
nel tuo sudario,
sottèrrati
nei tuoi strati minerali,
torna ad essere pietra cieca,
non dar retta ai banditi,
concorri invece
alla vita, all' agricoltura,
soppianta i motori,
stimola l' energia,
feconda i pianeti.
Non hai piu' segreti
cammina
in mezzo agli uomini
senza maschera
terribile
affrettando il passo
e propagando
i passi della frutta
separando montagne,
raddrizzando fiumi,
e fecondando,
atomo,
straboccata coppa cosmica,
torna alla pace del grappolo,
alla velocità della gioia,
torna al recinto
della natura,
mettiti al nostro servizio,
e anziché le ceneri
mortali
della tua maschera,
anziché gli inferni scatenati
della tua collera,
anziché la minaccia
del tuo terribile chiarore, dacci
la tua sussultante
indocilità
per il bene dei cereali,
il tuo magnetismo sfrenato
per fondare la pace fra gli uomini,
e così non sarà inferno
la tua luce abbacinante,
ma solo felicità,
mattutina speranza,
contributo terrestre.
Lucrezia Lombardo
Uomo del mio tempo - Salvatore Quasimodo
Uomo del mio tempo - s. Quasimodo
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t'ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all'altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
In questo componimento, pubblicato poco dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, il poeta, scosso nel profondo dalle atrocità perpetrate dall'uomo contro l'umanità stessa durante gli anni di guerra, riflette sulla forte dissonanza tra l'evoluzione della scienza e della tecnologia e la sterile permanenza dell' uomo in uno stato di natura, in cui le uniche leggi vigenti sono la violenza e la sete di potere. Poiché è a causa della natura corrotta dell'uomo che nel passato è svanita la possibilità di fare un corretto utilizzo delle scoperte tecnologiche, l'autore si rivolge alla nuova generazione ed invita l''uomo del suo tempo' a dimenticare le azioni violente con cui si sono macchiati i padri, al fine di riuscire a dare un nuovo inizio alla storia e permettere una svolta verso la prosperità, non solo economica e sociale, ma soprattutto etica e morale.
Filippo Ferrari
Iscriviti a:
Post (Atom)